“Ovunque vadano, lasciano distruzione e la chiamano pace.”
Così dice Lucius Verus (Paul Mescal) verso l’inizio di Gladiatore II, incitando i suoi compagni numidi a combattere contro la flotta romana in arrivo, guidata dal generale Marco Acacio (Pedro Pascal).
Un romano istruito avrebbe riconosciuto queste parole, o meglio, la loro versione latina: ubi solitudinem faciunt, pacem appellant. “Dove fanno il deserto, lo chiamano pace”. Provengono dall’Agricola, una biografia scritta dal senatore Tacito (56-120 d.C.) su – e intitolata a – suo suocero. Tacito attribuisce queste parole a un guerriero ribelle contro Roma. Non un principe esiliato alla guida di una città-stato africana come quello interpretato da Mescal, ma un capo caledonio (scozzese) chiamato Calgaco.
Il discorso di Calgaco è davvero brillante e vale la pena riportarlo in parte, non fosse altro per la sua risonanza in relazione a recenti interventi occidentali in alcune parti del Medio Oriente.
“Predatori del mondo, dopo aver devastato la terra con le loro razzie, si gettano ora sul mare: spinti dalla cupidigia, se il nemico è ricco; dall’ambizione, se è povero; mai sazi né a Oriente né a Occidente: gli unici che considerano con uguale avidità sia la ricchezza che la miseria. Rubare, massacrare, usurpare con falsi pretesti, lo chiamano impero; e, dove fanno il deserto, lo chiamano pace.”
Tacito, Agricola, 30
Si tratta di un materiale sorprendentemente sovversivo, specialmente se si considera che fu scritto da un senatore romano ricco che aveva beneficiato ampiamente del colonialismo romano. È anche del tutto fittizio. Tacito non aveva modo di sapere cosa disse Calgaco alle sue truppe, anche se era proprio il suocero di Tacito, Gneo Giulio Agricola, che si trovava schierato sulla piana di fronte a loro, incoraggiando ardentemente i suoi compagni meno numerosi a credere che la giornata sarebbe stata loro. (Sì, spoiler: lo fu).
Ma questo discorso, e il sentimento che trasmette, incarna un tropo che era in voga tra l’élite romana: dipingere un nobile selvaggio che si era ribellato a Roma come un portavoce per criticare la decadenza che ora la affliggeva.
Anche ai tempi di Tacito, i romani erano ben consapevoli della piaga dell’imperialismo romano. La corruzione era posta al centro della politica romana, e la colpa non era dei generali benintenzionati nelle terre straniere (Gneo Giulio Agricola, nel caso di Tacito; Marco Acacio in quello di Ridley Scott), ma della regola capricciosa degli imperatori e della servilità dei senatori che li sostenevano. Tacito scrisse su Tiberio, Caligola (anche se questa parte è andata perduta), Nerone e Domiziano. Ridley Scott ha raccolto il testimone prima con Commodo (Joaquin Phoenix) e ora con Caracalla e Geta (Fred Hechinger e Joseph Quinn).
Che la rappresentazione non sia storicamente accurata non importa realmente – anche se scriverò a riguardo a tempo debito. Il punto è che Tacito e i suoi contemporanei aristocratici avrebbero apprezzato (e si sarebbero identificati con) la storia. Gladiatore II è, nel suo nucleo, un film su un reietto romano i cui valori riflettono meglio il “sogno di Roma” rispetto a quelli di chiunque lo circondi, siano essi imperatori folli, senatori servili o la deliziosamente machiavellica figura di Macrino, interpretato da Denzel Washington (“that’s politicssss”).
Avrebbero tifato per Marco Acacio, un vero conquistatore romano, desiderando che la sua ribellione contro i gemelli tirannici avesse successo – magari con il minimo spargimento di sangue romano. Eppure sarebbero stati ambivalenti riguardo al sangue versato nell’arena, guardando con lo stesso distacco verso la sofferenza, come noi guardiamo programmi come Italia’s Got Talent. L’importante era che tenesse la plebe a bada attraverso il panem et circenses.
Non avrebbero desiderato il ripristino della Repubblica. Quell’idea morì dopo l’assassinio di Caligola, quando la Guardia Pretoriana mise il loro uomo Claudio sul trono, chiarendo al Senato che non se ne sarebbero andati senza un pagatore. Ma sarebbero stati soddisfatti con un uomo umile, conservatore e decorato sul trono – qualcosa che il generale Marco Acacio di Pedro Pascal poteva incarnare splendidamente.
Non sono sicuro di come il Lucio Vero di Paul Mescal si inserisca in una storia adatta a un pubblico antico. Probabilmente sarebbero stati contenti che perisse insieme alla sua sposa guerriera in Numidia, avendo il suo discorso contro la tirannia romana già adempiuto il suo scopo. Inoltre, i guerrieri erranti con un legittimo diritto al trono portavano quasi sempre guai alla pace, come dimostrano le dozzine di guerre civili romane. Sarebbero stati certamente confusi dalla madre di Lucio, la “regina” Lucilla (Connie Nielsen), una donna gravitante intorno al centro della politica pur non avendo legami di sangue con chi deteneva il potere.
Mi chiedo cosa avrebbero pensato di Macrino. Confusi, immagino. Senza dubbio, il suo personaggio mostra un notevole talento e ambizione, ma era anche un libertus (ex schiavo) che aveva superato di molto il suo rango. I romani erano fondamentalmente classisti e snob, e la classe sociale in cui era nato sarebbe stata più importante del colore della sua pelle o del suo accento marcatamente americano. Tuttavia, spoiler alert, sarebbero stati impressionati dal modo della sua morte, cadendo onorevolmente in un combattimento singolare e risparmiando così la vita a migliaia di romani.
Dove Gladiator II manca per me, come farebbe per qualsiasi pubblico antico, è nella sua visione utopistica e anacronistica per il futuro di Roma.
Nel discorso che pronuncia dopo aver ucciso Macrino, Lucio riecheggia il sogno di Marco Aurelio di una Roma come “una città per i molti e una casa per i bisognosi”. Romolo potrebbe anche aver fondato Roma come un asilo, accogliendo chiunque per aumentare la popolazione nascente. Ma l’idea che al culmine dell’Impero Romano la città fosse accogliente o ospitale è del tutto fantasiosa.
Lucio invita le legioni romane a deporre le armi per fermare lo spargimento di sangue, “per ricostruire questo sogno insieme”. Eppure, se la storia romana ci insegna qualcosa, è che quando le spade non erano puntate verso l’esterno, contro nemici stranieri, erano puntate verso l’interno, contro i pretendenti al trono imperiale e i loro eserciti privati. La verità scomoda e ineludibile è che il prezzo della pace romana era il saccheggio di potenze straniere. Ed è proprio lì che Gladiatore II inizia. Sotto le mura di una terra lontana, quando una flotta romana appare all’orizzonte.